Dalla Modern Dance alla Pop Art passando per la fotografia

Andy Warhol, "Martha Graham", 1986

Foto di Barbara Morgan

Se si pensa ad Andy Warhol, il più famoso rappresentante della Pop Art, nella nostra mente si materializzano opere quali Green Coca-Cola Bottles e Campbell’s Soup Cans, che simboleggiano la società dei consumi, o il volto serigrafato di Marilyn Monroe, che esemplifica il culto della celebrità e le nuove icone della cultura. In effetti la produzione dell’artista sembra una galleria, o forse un pantheon, di miti attinti dal cinema, dalla musica, dalla politica, dai cartoni animati e persino dai soggetti artistici come la Monna Lisa. Tra le personalità raffigurate rientra anche una danzatrice e coreografa che ha profondamente segnato la storia della danza: Martha Graham, capofila della modern dance e singolare interprete della storia, della società e della cultura americana.

Per celebrare il 60° anniversario della Martha Graham Dance Company (1986), Andy Warhol le dedica un portfolio composto da tre serigrafie che concorrono alla mitizzazione della figura della coreografa, già ben radicata nell’immaginario collettivo americano anche come insegnante di un lungo elenco di star, da Bette Davis a Madonna. Le tre opere sono realizzate impiegando le fotografie di Barbara Morgan, celebre fotografa americana che ha trovato nella rappresentazione della modern dance, e in particolare nella danza di Martha Graham, “un’eloquente forza vitale” catturata sempre con acuta sensibilità artistica.

Le foto selezionate da Warhol immortalano la Graham in tre suoi lavori: Lamentation (1930), Letter to the World (1940) e Satyric Festival Song (1932). Ciascuna immagine cristallizza nella frazione di un istante, irripetibile e unico come la natura stessa della danza, la verità emozionale di un movimento colto in tutta la sua forza espressiva, all’apice della tensione fisica e psichica. Sia le foto di Barbara Morgan che le serigrafie di Andy Warhol hanno eternato la danza di Martha Graham ma da due diverse prospettive: le prime accendendo una luce sul passato, le seconde sul presente.

Silvia Mozzachiodi

Anne Teresa De Keersmaeker e la danza nei musei

Foto di Anne Van Aerschot

Il desiderio della danza di portare la propria presenza anche al di fuori dei contesti teatrali incontra quello dei musei di ospitare nei propri spazi diverse discipline. Dal 23 novembre al 10 dicembre, nell’ambito del Festival d’Automne di Parigi, la coreografa belga Anne Teresa de Keersmaeker presenta al Museo del Louvre Forêt, un progetto museale-performativo creato per una nuova generazione di undici danzatori in collaborazione con il coreografo Némo Flouret. Traendo ispirazione dai quadri italiani e francesi che costellano l’ala Denon, il lavoro sviluppa una riflessione sulla cultura visiva e sul regime moderno dello sguardo, sul corpo del danzatore in relazione alla pittura e all’architettura. La danza attiva risonanze, sviluppa un dialogo tra il cristallizzarsi del tempo, esemplificato dalle opere d’arte, e il fluire della vita, rappresentato dal movimento.

Forêt rappresenta l’ultimo tassello di una ricerca intrapresa da Anne Teresa de Keersmaeker dieci anni fa ed incentrata sull’esplorazione della danza nei musei. Tra il 2011 e il 2012 la coreografa porta per la prima volta la sua scrittura coreografica all’interno di due istituzioni di rilievo: Violin Phase al MoMA di New York e Fase: Four Movements to the Music of Steve Reich alla Tate Modern di Londra. Le due performance, pur essendo eseguite in ambienti dove la fruizione dei visitatori è estremamente fluida dal punto di vista temporale e spaziale, conservano le convenzioni dello spettacolo performativo.

Nel 2015 Anne Teresa de Keersmaeker riprende la riflessione sulla trasposizione della danza dal Black Box (scatola scenica) al White Cube (spazio espositivo) introducendo un radicale cambiamento di prospettiva: può la coreografia diventare una mostra? Il risultato è Work/Travail/Arbeid, una re-interpretazione di Vortex Temporum (2013), uno dei suoi lavori più celebri su musica di Gérard Grisey, creata appositamente per il WIELS di Bruxelles. In questo caso la riscrittura coreografica per il museo comporta l’adozione di una serie di codici temporali e spaziali che sono totalmente diversi da quelli del teatro. L’estensione temporale della performance ad un ciclo di nove ore, l’abolizione della frontalità e il superamento del confine tra danzatore e spettatore nella condivisione dello spazio introducono nuove possibilità di fruizione dell’evento performativo. I visitatori-spettatori, liberi di avvicinarsi per focalizzare l’attenzione sui dettagli o di spostarsi per cambiare il proprio angolo di osservazione, hanno un ruolo attivo nel determinare la propria esperienza. Nel corso degli anni Work/Travail/Arbeid è stato riadattato per il Centre Pompidou di Parigi e la Tate Modern di Londra (2016), il MoMA di New York (2017), il Mudam di Lussemburgo e il Volksbühne di Berlino (2018).

Nel 2019 The Dark Red Research Project segna una nuova fase improntata alla sperimentazione e creazione di un linguaggio coreografico specifico per gli spazi museali. Presentato per la prima volta all’M HKA di Anversa, il progetto cambia a seconda della cornice nella quale si inscrive: il Kolumba di Colonia (2020), la Fondation Beyeler di Basilea e il Louvre-Lens (2021), la Neue Nationalgalerie di Berlino (2022). Ogni museo, portavoce di una propria storia e cultura, attiva differenti strategie relazionali e pertanto diversi meccanismi di allestimento coreografico che reinterpretano le collezioni e l’architettura delle varie istituzioni.

Silvia Mozzachiodi

La passione per il ballo di Piet Mondrian

Nel giro di una settimana il nome di Piet Mondrian, pittore olandese della prima metà del Novecento, è apparso su tutti i giornali con una notizia alquanto curiosa: uno dei suoi quadri più famosi, New York City I (1942), è stato esposto per più di settant’anni al contrario. L’errore, già scoperto dall’artista italiano Francesco Visalli nel 2021, è stato reso pubblico da Susanne Meyer-Büser, curatrice della mostra “Mondrian Evolution” in corso al museo Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf.

Fondatore del Neoplasticismo, Piet Mondrian è tra gli artisti più influenti del XX secolo. Spinto dal desiderio di cogliere l’universale, ha progressivamente abbandonato la rappresentazione figurativa della realtà per abbracciare un’idea astratta della pittura, caratterizzata da un’essenzialità geometrica di linee ortogonali e colori primari (rosso, giallo e blu). Secondo il pittore questo nuovo senso estetico, che avrà una decisiva influenza anche sul design e sull’architettura, non riguarda la sola pittura ma deve essere applicato a tutte le arti quale comune denominatore di una cultura intesa nella sua totalità creativa. Tra le discipline considerate non manca la danza, una forma d’arte sulla quale Mondrian sviluppa una singolare riflessione in Natural Reality and Abstract Reality (1919-1920), un saggio in forma di dialogo tra X (naturalistic painter), Y (art-lover) e Z (abstract-realist painter):

Today the dance, the dance which has some subtlety, as well as the music, to which, or rather against which one dances, expresses a duality of two equivalent elements. The straight line is the plastic expression of this fact. In music, the various rhythms oppose each other, as they oppose the melody, and as the steps of the dance oppose each other. Thus a much greater unity is achieved.

Piet Mondrian

Mondrian nutre un sincero interesse per il ballo, coltivato prima in Olanda, dove è soprannominato dai colleghi “The Dancing Madonna”, e poi a Parigi, dove è affascinato dalle esibizioni della danzatrice Joséphine Baker, frequenta regolarmente le sale da ballo e prende lezioni di fox-trot, ripetendo i passi nel proprio studio con grande rigore. Il suo trasporto è così profondo che, in un’intervista rilasciata al quotidiano “De Telegraaf” nel 1926, critica duramente l’Olanda per aver proibito il charleston: “Se questo divieto rimarrà in vigore, lo considererò un motivo sufficiente per non mettere più piede in quel Paese”.

La passione per il ballo si riflette inevitabilmente nella sua arte. Durante il soggiorno parigino il fox-trot ispira due tele: Fox Trot A (1930) e Fox Trot B (1929), oggi conservate alla Yale University Art Gallery. Oltre ad esemplificare la rigorosa essenzialità geometrica e cromatica ricercata dall’artista, le due opere rispecchiano il suo interesse per l’equilibrio e l’armonia. A New York, dove si trasferisce per sfuggire alla Seconda Guerra Mondiale, Piet Mondrian scopre la forza propulsiva del boogie-woogie:

True Boogie-Woogie I see as similar in intention to mine; destruction of melody (natural aspect) construction through continuous oppositions of pure means. Dynamic rhythm.

Piet Mondrian

La vitalità ritmica di questo ballo è tradotta nei quadri Broadway Boogie-Woogie (1942-1943) e Victory Boogie-Woogie (1944, incompiuto). In entrambi le linee rette, non più nere ma gialle, formano piccoli quadrangoli colorati che, nel loro dinamismo, generano una danza che sembra tendere all’infinito.

Silvia Mozzachiodi