GOD’s FORMULA – The Movie, disponibile su dringeblieben.de, è la trasposizione cinematografica dell’omonima creazione di Diego Tortelli (coreografia) & Miria Wurm (drammaturgia). Diretto dal danzatore e fotografo Jubal Battisti, il film è un adattamento che, impiegando con accortezza le specifiche risorse del dispositivo cinematografico quali il movimento della camera e il montaggio, presenta un avvincente rapporto tra danza e cinema.
La macchina da presa, lungi dall’offrire una visione statica e distaccata della performance, è immersa nell’azione coreografica, è un corpo che danza tra i corpi dei danzatori con musicalità e dinamismo. In una contemplazione che lascia trapelare una tangibile meraviglia, ogni inquadratura reca una particolare attenzione per la bellezza plastica dei movimenti, la tensione muscolare dei corpi, la geometria delle forme, il gioco di luci e ombre. I movimenti della camera, complementari al ritmo della musica di Federico Bigonzetti, si inscrivono nello spazio scenico mostrando l’articolata costruzione coreografica da varie angolazioni, inaccessibili al pubblico durante la performance live in teatro.
GOD’s FORMULA – The Movie offre un differente sguardo sulla performance, mediato dalla macchina da presa ma esclusivo perché intrinseco alla danza. Il film esalta l’astrazione poetica del linguaggio coreografico di Diego Tortelli ed enfatizza l’atmosfera di un lavoro che, ispirato alle Tavole rudolfine di Keplero e al libro The God’s Equation – The Search for the Theory of Everything del fisico Michio Kaku, ha per concept la ricerca di una formula divina per una maggiore comprensione dell’universo.
“Il problema della donna nell’arte rientra nel più generale problema dell’eguaglianza”: così tuonava la storica dell’arte Linda Nochlin nel 1977, riconducendo il divario numerico tra gli artisti uomini e le artiste donne ai costrutti socioculturali che per secoli hanno incasellato, o forse è più appropriato dire ingabbiato, la figura femminile. Gli stessi meccanismi sociali hanno contraddistinto inizialmente anche la storia del balletto, precludendo alle donne di intraprendere una carriera nel campo coreografico secondo una visione lavorativa che considerava la coreografia una prerogativa maschile e l’esecuzione una peculiarità femminile. Fino all’Ottocento le prime ballerine, vere e proprie dive dell’età romantica, potevano vantare compensi più alti rispetto a quelli dei colleghi ballerini relegati al ruolo di porteur, ma non incarichi coreografici. Le prime ad infrangere il sistema furono: Thérèse Elssler, la prima donna a coreografare un balletto per il Teatro dell’Opéra di Parigi (La Volière ou les oiseaux de Boccace, 1838); Fanny Cerrito, non solo acclamata interprete del balletto romantico ma anche coreografa di talento (Gemma, 1854); Maria Taglioni, la ballerina romantica per antonomasia che ha rivoluzionato in punta di piedi l’estetica del balletto (Le Papillon, 1860). Il loro lavoro fu interpretato come un atto di insubordinazione, del tutto immotivato e inopportuno: “Eh! Mio Dio, perché poi avere altre ambizioni, quando si è carina, adorabile e adorata?” scrisse una firma di “La Patrie” a commento del balletto di Fanny Cerrito.
Anche se i tre balletti furono considerati dalla critica non all’altezza di quelli realizzati dai colleghi, il merito di Elssler, Cerrito e Taglioni fu di aver aperto un varco alle (pochissime) future coreografe “accademiche” del Novecento. Nella prima metà del secolo, in un panorama coreografico – quello del balletto – ancora interamente maschile, un’artista carismatica e di grande talento riuscì a imporsi: Bronislava Nijinska, la prima donna ad essere nominata coreografa ufficiale dei Ballets Russes per i quali realizzò celebri produzioni, come Les Noces (1923), Les Biches (1924) e Le Train Bleu (1924), divenendo un personaggio di spicco del XX secolo. Un’altra figura molto importante, contemporanea di Nijinska, fu Dame Ninette de Valois che dedicò gran parte della sua carriera alla fondazione di una compagnia nazionale (il Vic-Wells Ballet, in seguito rinominato Sadler’s Wells Ballet e poi Royal Ballet) e alla crescita di una brillante generazione di ballerini e coreografi inglesi (tra i quali Margot Fonteyn e Kenneth MacMillan), apportando così un fondamentale contributo allo sviluppo del balletto britannico e alla sua affermazione a livello internazionale.
Non posso non citare due grandi stelle del balletto classico che hanno esemplificato la libertà di pensiero. Maya Plisetskaya, prima ballerina assoluta del Teatro Bolshoi di Mosca, fu un simbolo di libertà. Segnata dalla tragica vicenda della sua famiglia che fu vittima delle grandi purghe staliniane – il padre fu giustiziato e la madre deportata in un gulag – la ballerina fu una donna dalla mentalità indipendente. Sfidò apertamente le autorità culturali sovietiche, riuscendo a salvare il balletto Carmen (1967) dalla censura per eccessivo modernismo e sensualità, e riuscì a coreografare due titoli (Anna Karenina, 1972 e Il gabbiano, 1980) in un’epoca in cui il ruolo del coreografo fu sempre ricoperto da soli uomini. L’altra prima ballerina assoluta dallo straordinario temperamento fu la cubana Alicia Alonso, che si oppose alla richiesta del dittatore Fulgencio Batista di trasformare la sua compagnia, il Ballet de Cuba, in uno strumento di propaganda ed offrì il suo appoggio politico a Fidel Castro. Fu inoltre l’incarnazione della forza d’animo. I suoi gravi problemi visivi, che la condussero progressivamente alla cecità nonostante i vari interventi chirurgici, non compromisero la sua lunghissima e internazionale carriera ma la spinsero a interiorizzare la percezione del corpo e dello spazio scenico e a sviluppare un’espressività unica.
Se nel balletto – ancora oggi – le coreografe sono una rarità, nella danza non accademica sono invece una bellissima consuetudine. All’alba del XX secolo una nuova espressività corporea, antitetica ai codici della danza classica, fu sviluppata da tre donne americane passate alla storia come le pioniere della danza moderna: Loïe Fuller, Isadora Duncan e Ruth St. Denis. Le tre danzatrici, indipendenti, rappresentarono l’evoluzione dell’immaginario femminile nella danza e nella società. Loïe Fuller sottolineò questo aspetto nella sua autobiografia condividendo un articolo di Le Temps incentrato sulla rapida ascesa delle donne, pronte a soppiantare il cosiddetto sesso più forte. Isadora Duncan riuscì ad influenzare non solo il mondo artistico ma anche l’opinione pubblica elevando il corpo femminile, esaltato nella sua armonia con semplici tuniche alla greca, quale simbolo della libertà della donna e della sua emancipazione e dunque strumento di sovversione culturale. Anche Ruth St. Denis, profondamente influenzata dalla madre Emma Hull, vicina ai movimenti protofemministi e tra le prime americane a laurearsi in medicina, scrisse una poesia intitolata emblematicamente The Voice of Woman (1946):
Have we not had enough of the minds of men?
The logical disputations and the sects arising from them?
Have we not had enough of the indifference
In the scriptures, to the life and need and wisdom of women?
Ruth St. Denis
La rivoluzione estetica compiuta dalle tre pioniere fu ereditata dalla prima generazione della modern dance, in particolare dai “Big Four”, i quattro grandi. Ebbene, tre erano donne: Martha Graham, Doris Humphrey e Hanya Holm, nomi che hanno scritto un capitolo imprescindibile della storia della danza. Con loro studiò Anna Halprin, coreografa che ha rivoluzionato la scena americana del secondo Novecento promuovendo una concezione fortemente democratica e inclusiva della danza. La sua lezione esercitò una profonda influenza sulla generazione della post-modern dance, costellata di meravigliose figure femminili come Trisha Brown, eclettica coreografa e importante visual artist.
Non mancano esempi di coreografe coraggiose che hanno trovato nella danza uno strumento di contestazione sociopolitica e di rivendicazione culturale. La svedese Birgit Cullberg partecipò attivamente alla vita politica del suo Paese militando nel partito socialdemocratico, schierandosi con l’associazione Clarté contro i totalitarismi e trasferendo il suo impegno politico in Kulturpropaganda, coreografato nel 1941 quando la Svezia fu invasa dai nazisti. L’americana Anna Sokolow affrontò nei suoi lavori sia tematiche sociali come la difesa dei diritti dei lavoratori (Strange American Funeral, 1935), sia istanze politiche come la denuncia delle atrocità della guerra (Anti-War Trilogy, 1933, o Slaughter of the Innocents, 1937) e del fascismo in Italia (Excerpts from a War Poem e Façade – Exposizione Italiana, 1937) e la sua solidarietà alle comunità ebraiche negli anni della seconda guerra mondiale (Songs of a Semite, 1943). L’americana Katherine Dunham, pioniera della black dance, offrì invece un sostanziale contributo alla campagna del New Negro Movement e diventò un’attivista del movimento per i diritti civili degli afroamericani, trasformando la danza in un atto politico di affermazione della propria identità.
A conclusione di questo mosaico una donna che ha cambiato il panorama teatrale tout court con il suo Tanztheater: Pina Bausch, tra le più grandi coreografe del secondo Novecento, autrice di una danza di toccante naturalezza e umanità che, senza ricorrere al virtuosismo, parla il linguaggio del cuore.
In scena al Teatro Regio di Parma sabato 4 marzo, L’Heure Exquise è un gioiello di danza e di teatro, incastonati splendidamente dalla singolare inventiva di Maurice Béjart. Creato appositamente per Carla Fracci e Micha van Hoecke nel 1998, per anni è caduto nell’oblio, probabilmente per la difficoltà di misurarsi con la spiccata dimensione teatrale confezionata ad hoc, come un vestito, per il duo Fracci e van Hoecke. Nel 2021 L’Heure Exquise ha rivisto finalmente la luce nell’interpretazione di Alessandra Ferri che lo ha scelto per celebrare i 40 anni della sua carriera, iniziata al Royal Ballet nel 1981, e che continua a presentare sull’onda di un successo inarrestabile. Specchio di una visione della danza quale espressione di un teatro totale, la pièce mette in luce l’autenticità interpretativa e la sensibilità teatrale di Alessandra Ferri, qualità in comune con Carla Fracci. Generazioni diverse ma entrambe danzatrici attrici, mirabili nel dare voce ad un’arte silenziosa attraverso la poesia del movimento.
L’Heure Exquise si ispira a Oh, les beaux jours (Giorni felici) di Samuel Beckett, un dramma considerato tra i momenti più alti della produzione del drammaturgo e della letteratura teatrale della seconda metà del Novecento. Come suggerisce il sottotitolo, Variazioni su un tema di Samuel Beckett, Maurice Béjart non realizza un adattamento coreografico vero e proprio, ma una riscrittura coreografica, senza tuttavia smarrire lo spirito dell’opera. Winnie, la protagonista del testo di Beckett, diviene una ballerina “âgée” che rivive con malinconia i giorni felici della sua vita. Il marito Willie, interpretato da Thomas Whitehead (Principal Character Artist del Royal Ballet), diventa invece un suo ex partner. Altrettanto geniale è la reinvenzione della famosa immagine scenica della collina di sabbia, che sommerge Winnie, in una rosea duna di 3000 scarpette da punta.
La felicità della protagonista, chiave del dramma teatrale, si lega qui alla carriera della ballerina, raccontata con frammenti di vita, sprazzi di memoria, ricordi di una professione che richiede forza e disciplina. Non mancano nella coreografia citazioni tratte dai grandi balletti, Romeo e Giulietta per Alessandra Ferri (Giselle per Carla Fracci), un ruolo che ha interpretato magistralmente. Sulle note di Anton Webern, Gustav Mahler, Wolfgang Amadeus Mozart e Franz Lehár, L’Heure Exquise è il ritratto di un’arte che coniuga passione e lavoro, un atto d’amore per il mondo della danza.