Disponibile su raiplay la « Soirée Thierrée / Shechter / Pérez / Pite » del balletto dell’opéra di parigi
Parigi, 2018. Il tempio dell’accademismo francese, l’Opéra Garnier, apre le porte alla danza contemporanea con Soirée Thierrée / Shechter / Pérez / Pite, una serata composta da quattro titoli creati per il Balletto dell’Opéra di Parigi da autorevoli esponenti della scena coreografica internazionale. La modernità del programma non si pone in antitesi con la secolare tradizione accademica della compagnia, ma porta avanti una visione della danza, ormai di lunga data, che supera le divisioni “classico”, “moderno” e “contemporaneo”. Padri di questa visione furono due direttori lungimiranti: negli anni Settanta il compositore Rolf Liebermann, che nominò Carolyn Carlson étoile-chorégraphe e le affidò la direzione del Groupe de Recherches Théâtres de l’Opéra de Paris; negli anni Ottanta il leggendario Rudolf Nureyev, che ampliò il repertorio della compagnia introducendo le creazioni di Merce Cunningham, Paul Taylor, Jerome Robbins e commissionando nuovi lavori a Maguy Marin e William Forsythe.
Con Frôlons, titolo d’apertura della serata, la magia teatrale esce dalla scatola scenica e irrompe negli spazi pubblici del teatro – il Grand Escalier, il Foyer, la Rotonde des Abonnés – trasportando gli spettatori in un’atmosfera fantasmagorica. Creature chimeriche, dorate come le sontuose decorazioni del Palais Garnier e fiancheggiate da grotteschi impresari, attraversano lo spazio come spettri, scrutando e sfiorando un pubblico per metà affascinato e per metà intimidito. Alcune camminano, altre strisciano a terra, altre ancora si raggruppano dando forma a nuove entità, immagini, suggestioni. Fantasmi del teatro o proiezioni della creatività, il loro passaggio termina laddove tutto ha origine: il palcoscenico. L’autore di quest’opera è l’istrionico James Thierrée, attore, performer, regista, acrobata e nipote di Charlie Chaplin.
Una volta preso posto in platea e nei palchi, il pubblico è travolto dall’incipit della successiva performance, The Art of Not Looking Back dell’israeliano Hofesh Shechter. Nel buio della scena una voce – quella del coreografo – recita la propria biografia, accelerando a tal punto la velocità della narrazione da sembrare un nastro magnetico. Dopo aver recuperato il giusto ritmo per raccontare l’abbandono della madre, la voce è interrotta da un urlo assordante, accompagnato da un bagliore in platea. Veemente anche a livello sensoriale, l’inizio introduce il focus della creazione: affrontare il passato può essere così doloroso da cercare di sfuggirlo. La coreografia, danzata da nove ballerine, esplora questa sensazione attraverso movimenti convulsi e sfrenati, brutali nella loro energia ed intensità, strettamente aderenti al ritmo del collage sonoro.
The Male Dancer, coreografato dallo spagnolo Iván Pérez sullo Stabat Mater di Arvo Pärt, affronta le forme di narrazione e rappresentazione delle identità di genere. Il lavoro nasce infatti da una riflessione sulla percezione odierna della danza maschile, non più soltanto espressione di forza e potenza, ma anche di grazia e finezza. L’intensità del componimento musicale, pervaso da un senso di sacralità, si riflette nella coreografia che cita emblematiche pose del repertorio dei Ballets Russes; nell’espressività dei movimenti, che rivelano tutta la loro sensibilità e vulnerabilità; nella libera manifestazione della femminilità, evidenziata anche dal taglio dei costumi di Alejandro Gomez Palomo, al di là degli stereotipi e dei pregiudizi.
A chiudere la serata, con un tripudio di applausi, è The Seasons’ Canon della coreografa canadese Crystal Pite. Coreografato per 54 danzatori su Le quattro stagioni di Antonio Vivaldi nella riscrittura di Max Richter, il lavoro esprime l’essenza della natura come un insieme di relazioni, soprattutto nelle scene corali. Che sia all’unisono o a canone, il movimento collettivo dei danzatori diffonde nello spazio la stessa energia e luce che appare sul fondale della scena. Di una bellezza rarissima, The Seasons’ Canon è a tutti gli effetti un’apologia della danza nello splendore plastico dei corpi, nella musicalità del movimento, nella poesia della scrittura coreografica.
Silvia Mozzachiodi