Statuesque: quando la danza dialoga con la scultura

Marco Agostino e Martina Arduino
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Cosa hanno in comune la danza, arte del movimento, e la scultura, arte dell’immobilità? La ricerca di nuove soluzioni formali nella rappresentazione del corpo. Al pari di uno scultore, il coreografo modella i corpi dei danzatori creando forme e linee capaci di rappresentare azioni e di trasmettere emozioni, in grado di enfatizzarne lo splendore plastico. La relazione tra le due arti è esplorata in Statuesque, un progetto del coreografo italiano Marco Pelle realizzato in collaborazione con Awen Films e sponsorizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Washington, DC. Creato per il bicentenario della morte di Antonio Canova, Statuesque è composto da dieci coreografie ispirate alle più famose sculture dei grandi maestri italiani, capolavori di grande virtuosismo tecnico che hanno segnato la storia dell’arte. Ad eseguirle, all’interno dell’Ambasciata d’Italia a Washington, i primi ballerini del Teatro La Scala di Milano, Martina Arduino e Marco Agostino. A filmarle il regista Ruben Zaccaroni.

Il progetto è pensato come un viaggio che nell’arco di dieci settimane, a partire dall’aprile scorso, celebra la grandezza della statuaria italiana condividendo ogni lunedì una creazione sul canale YouTube dell’Istituto Italiano di Cultura di Washington. Tutte le coreografie – finora sette quelle pubblicate – sono introdotte da una breve presentazione dove Marco Pelle, raccontando le opere che hanno ispirato il suo processo creativo, abbraccia la missione culturale dell’Istituto: promuovere e diffondere il patrimonio artistico italiano.

Il coreografo sviluppa forme e motivi impiegati dagli scultori nelle loro opere attraverso gesti e movimenti che trovano la loro più profonda motivazione nel tentativo di liberare nella danza l’energia scolpita nel marmo: il pathos del Cristo Velato di Giuseppe Sanmartino (1753), la teatralità di Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini (1625), la sensualità di Paolina Borghese nelle vesti di Venere vincitrice di Antonio Canova (1808). Ciascuna danza, oltre ad essere in sintonia con la concezione creativa degli scultori, diventa l’estensione spaziale e temporale dell’istante immortalato nell’opera d’arte. Un esempio è l’Orfeo ed Euridice di Antonio Canova (1776). Mentre la scultura raffigura il momento topico del mito, ossia quando Orfeo si volta perdendo per sempre il suo amore, la versione coreografica mette in scena la risalita dei due amanti fuori dagli Inferi, uno dietro l’altro.

Per evidenziare il legame con la fonte creativa, i danzatori riproducono all’inizio o alla fine delle coreografie le pose delle sculture, dando vita ad una veloce e singolare sovrapposizione dei due linguaggi artistici. Suggestive, in particolare, le riproduzioni di due gruppi scultorei: il Ratto di Proserpina del Bernini (1622), che cattura il momento culminante dell’azione, il rapimento di Proserpina per mano di Plutone, con i corpi ai limiti della stabilità e all’apice della tensione muscolare; Amore e Psiche di Antonio Canova (1793), decantato dalla dolce intensità di Martina Arduino e Marco Agostino che, con l’atteggiamento dei loro corpi e la reciproca contemplazione degli sguardi, replicano l’attimo che precede il bacio.

Anche la scelta di girare in bianco e nero costituisce una raffinata operazione stilistica. Sottrarre il colore ai filmati significa non soltanto conservare il cromatismo estetico delle sculture ma elevare il corpo dei danzatori a opere d’arte, da ammirare in tutta la loro bellezza. La sostanziale differenza tra le due arti risiede nel respiro della danza, ovvero della vita.

Silvia Mozzachiodi