
Ogni artista è un potenziale emissario, un ambasciatore del suo paese e quindi una potente forza internazionale.
Katherine Dunham
Ci sono storie che devono essere raccontate ad oltranza, auspicabili bussole per una parte di quella società che si è persa nella violenza e nell’indifferenza. Tra queste storie c’è la vita di Katherine Dunham (1909 – 2006), un’artista da celebrare non soltanto in occasione del Black History Month ma da assurgere quale modello per la nostra epoca. Considerata dalla critica la pioniera della black dance, la sua importanza nella cultura americana va ben oltre alla fama di danzatrice e coreografa. Fu il simbolo del multiculturalismo e della difesa dei diritti civili degli afroamericani.
Fin dall’inizio il suo percorso fu al crocevia tra scienza e arte: da un lato l’iscrizione alla facoltà di Antropologia dell’Università di Chicago (1928) e dall’altro la fondazione con il danzatore e poeta Mark Turbyfill della compagnia Ballet Nègre (1929). Discriminata fin dalla giovinezza per il colore della sua pelle (il padre era malgascio mentre la madre franco-canadese), Katherine Dunham scoprì una scuola di pensiero che liberava le differenze etniche da un presunto costrutto biologico. Considerando la danza lo specchio della società, applicò gli studi antropologici all’arte del movimento per rintracciare il cuore e l’essenza delle proprie origini. Fondamentale fu la consapevolezza del proprio patrimonio culturale che non doveva essere assimilato in maniera passiva ma nobilitato per rafforzare la rappresentazione sociale della propria identità.
Nel 1935 Dunham, ottenuta una borsa di studio dalla Fondazione Rosenwald, condusse delle ricerche etnografiche sulla danza in Giamaica, Martinica, Trinidad e Haiti. Durante il lavoro di ricerca che portò alla pubblicazione della tesi The Dances of Haiti (1947), formulò una teoria sulla stretta relazione nella danza tra forma e funzione, evidenziando come l’arte coreutica non fosse soltanto un’espressione estetica ma piuttosto una manifestazione identitaria di ciascun popolo. In particolare nelle popolazioni africane, la danza era un elemento di appartenenza e condivisione nella vita comunitaria di un gruppo sociale, ma soprattutto uno strumento di connessione con la Natura.
Katherine Dunham in L’Ag’Ya Katherine Dunham e Vanoye Aitkens
Terminata la tesi, Katherine Dunham rinunciò alla carriera di antropologa per dedicarsi completamente alla danza e sfruttò i suoi studi universitari per sviluppare una propria tecnica nata dalla fusione della danza accademica e della modern dance con le forme afro-caraibiche. Un perfetto esempio di questa sintesi fu L’Ag’Ya (1938), trasposizione coreografica di una danza da combattimento conosciuta durante il viaggio di studio in Martinica.
Oltre a rivoluzionare il panorama della danza americana, Dunham offrì un sostanziale contributo alla campagna del New Negro Movement, gruppo formato da artisti e intellettuali neri che credevano nel potere dell’arte di sfidare i pregiudizi razziali. Nonostante la sua popolarità, la danzatrice e antropologa continuò ad essere oggetto di discriminazioni razziali: in tournée la sua compagnia aveva difficoltà a trovare alloggi e ristoranti, non era ammessa nei teatri e nei cinema e spesso fu duramente sminuita o persino stroncata dalla critica. Fiera e combattiva, Dunham diventò un’attivista del movimento per i diritti civili degli afroamericani. Convinta di poter combattere la povertà e il disagio attraverso la danza, lavorò a stretto contatto con la gioventù dei ghetti, liberò i danzatori afroamericani dagli stereotipi dello shake dancer e tap dancer, creò opere di denuncia come Swamp (1937) e Southland (1951) dove si schierò contro il linciaggio, un tema centrale nella lotta dei movimenti politici dei New Negro.
Un altro esempio del suo attivismo fu Carnival of Rhythm (1941), un cortometraggio musicale prodotto dalla Warner Bros e dedicato ai contadini e ai lavoratori del Brasile. Nel realizzare la coreografia Katherine Dunham volle realizzare un ritratto “autentico” della vita popolare brasiliana nella regione di Bahia ma i produttori cinematografici si opposero all’idea di impiegare i ballerini afroamericani per timore di contrariare i dignitari brasiliani e il pubblico americano. Questo perché un anno prima la Twentieth Century Fox aveva prodotto il film Down Argentine Way che aveva lanciato la nuova stella brasiliana Carmen Miranda, di pelle chiara e con lineamenti europei. Per combattere le restrizioni Katherine Dunham invitò alle prove l’ambasciatore brasiliano, il quale appoggiò il lavoro della coreografa.
La danza di Katherine Dunham fu un atto politico di affermazione dell’identità afroamericana, di costruzione di un (con)senso egualitario, di comunicazione interculturale e di riscatto sociale. Oggi più che mai bisogna raccontare la sua storia.
Silvia Mozzachiodi