“Nella storia del cinema ci sono cinque o sei film che ci piace commentare solo con queste parole: ‘Questo è il film più bello!’ Perché non c’è elogio migliore … Cinque o sei film, ho detto, +1, perché Un’estate d’amore è il film più bello.”
Jean-Luc Godard
Ingmar Bergman, soprannominato dai colleghi “The Genius”, è stato tra i registi più eminenti della storia del cinema. Prima ancora del Settimo Sigillo (1957), considerato uno dei suoi più grandi capolavori, un altro film ha segnato una tappa fondamentale nella carriera del regista costituendo il primo esempio della sua maturità stilistica: Un’estate d’amore (1951). Anche se non è tra i suoi lavori più noti, Bergman lo ha sempre tenuto in grande considerazione, essendo nato dalla rielaborazione di una vicenda autobiografica, un amore giovanile vissuto nell’isola di Ornö durante l’estate del 1934.
Tra le tematiche affrontate nel film il regista ha posto un particolare accento sul motivo della “maschera” che gli ha consentito di sviluppare la dicotomia tra la vita e la finzione, tra la realtà e la messa in scena. Ad indossare la maschera è la ballerina Marie che, insoddisfatta per aver dedicato la sua vita alla danza, vorrebbe vivere al di là della finzione del palcoscenico.
Il film inizia a teatro dove è in corso la prova generale del Lago dei cigni. La prima ballerina Marie è nel suo camerino a prepararsi quando inaspettatamente riceve un plico che fa riemergere un tempo perduto, fatto di felicità e spensieratezza. È il diario di Henrik, un ragazzo sensibile e un po’ impacciato che ha amato intensamente tredici anni prima nell’arco di una sola estate. Sospesa la prova a causa di un guasto all’impianto elettrico, Marie torna nei luoghi che hanno visto nascere la loro storia d’amore. Con dolore ripensa ai giorni felici trascorsi con Henrik, bruscamente interrotti dalla prematura morte del ragazzo, tuffatosi in mare in un punto dove non si era accorto dei bassi fondali scogliosi. Marie non riesce a darsi pace e s’interroga sul destino e sul senso dell’esistenza:
“Il destino è crudele. Ti offre una gioia, ti fa sperare e poi di colpo ti abbandona. Allora tutto crolla intorno a te nel fango e nella polvere. Ma perché ha dovuto accanirsi così?”
Marie
Inconsolabile, Marie costruisce intorno a sé un muro che la isola dal mondo. Trova rifugio nella propria professione, alla quale si dedica con un accanimento brutale. La danza diventa più di una passione, si erige a porto sicuro lontano dalle tempeste della vita, l’unica via percorribile per trovare un senso alla propria esistenza e dimenticare Henrik. Con il passare del tempo il muro che ha innalzato si trasforma in una gabbia e il trucco di scena diventa una seconda pelle. La maschera della ballerina ha preso il sopravvento sulla persona, così svuotata e snaturata da sembrare un burattino.

Il tema della maschera come cortocircuito tra la vita e la finzione è particolarmente evidente in una delle sequenze più belle e importanti del film. Marie si guarda allo specchio, stanca e senza speranza. Imprigionata nel suo costume di scena, è incapace di uscire dal ruolo di ballerina e di ricongiungersi al mondo. Il suo stato d’animo è enfatizzato da una serie di immagini poetiche: il rubinetto che gocciola richiama l’inesorabilità del tempo che passa; la statuina della danzatrice rappresenta la sua fragilità; le scarpette da punta ricordano la natura artificiale del balletto e l’abisso che separa la ballerina dall’essere umano.
Il silenzio della scena è interrotto dall’arrivo del Maestro di ballo, truccato per interpretare il personaggio di Coppelius, un costruttore di bambole che si è dedicato totalmente alla sua arte escludendo ogni altro interesse esistenziale. Fingendo di capire il suo senso di inutilità, il Maestro le dà un consiglio nello stile del personaggio hoffmanniano.
“Si può scrutare nella propria vita una volta sola. Le difese che uno costruisce intorno a sé crollano, ed egli si ritrova spoglio e gelido e può vedere il suo vero se stesso, ma una sola volta. Tu vuoi essere felice? Vuoi dare un senso alla tua vita? Hai dei ricordi? Vorresti cominciare daccapo? Tutte chimere, Marie. Sono parole, fantasie; tu hai la danza, basta. È il tuo toccasana. Non dirottare, o può finire male.”
Maestro di ballo

Durante il dialogo l’immagine della ballerina è sempre inquadrata nello specchio, facendo così affiorare il tema del doppio che è ricorrente in tutto il film: il passato e il presente, la vita e la morte, l’estate e l’autunno, la realtà e la finzione. In questa prospettiva non è casuale la scelta del Lago dei cigni, un balletto contraddistinto dal dualismo del cigno bianco e del cigno nero. Ma le somiglianze tra il balletto e il film non finiscono qui. In entrambi il rimpianto del passato e l’insoddisfazione del presente sono una metafora artistica della vita. Il passato è per Odette il ricordo della spensierata adolescenza che svanì quando il maleficio del mago Rothbart la trasformò in un cigno bianco. Analogamente per Marie il passato è il ricordo dei mesi d’amore vissuti con Henrik nell’incanto della magica estate nordica. Il presente di Odette è tragico, imprigionata nel candido corpo di un cigno bianco. Similmente, il presente di Marie è vano, prigioniera di una maschera che la tiene lontana dalla vita reale.
Alla fine, dopo aver affrontato pienamente il proprio dolore, Marie trova la giusta spinta per liberarsi della sua maschera. Riscopre la sua vera identità, rivaluta il presente ed è finalmente pronta ad affrontare la vita e un nuovo amore. Con questa presa di coscienza riscopre anche il piacere di danzare, come suggerisce la sequenza finale ambientata durante la rappresentazione del Lago dei Cigni.
Silvia Mozzachiodi